Diritto Penale

Il diritto penale è quella branca del diritto che indica il complesso delle norme che descrivono i reati e le conseguenze (pene) da essi derivanti. È un ramo dell’ordinamento giuridico e precisamente del diritto pubblico interno.

Lo Stato, proibendo determinati comportamenti umani (i reati), per mezzo di una minaccia di una specifica sanzione afflittiva (la pena), tutela i valori fondanti di un popolo. Ed è il tipo di sanzione, “la pena”, che distingue il reato, l’illecito penale, dall’illecito civile e dall’illecito amministrativo. E ancora, è il tipo di sanzione, cioè “la pena”, a distinguere la norma penale da quella civile e amministrativa. La sanzione conseguente alla violazione di un precetto penale è la pena, di forma o gravità diversa a seconda del reato. La disposizione penale è quindi composta dal precetto, che proibisce un determinato comportamento umano, e dalla sanzione, che prevede le conseguenze per la violazione del precetto.

DEFINIZIONE DEL REATO

Si definisce reato quel comportamento umano volontario, che si concretizza in un’azione o omissione tesa a ledere un bene tutelato giuridicamente e a cui l’Ordinamento giuridico fa discendere l’irrogazione di una pena (sanzione penale).
L’art. 27 della Costituzione stabilisce che “la responsabilità penale è personale”. L’Ordinamento quindi tutela il principio della personalità della responsabilità penale per cui, la natura strettamente personale del reato, implica che nessuno può essere considerato responsabile per un fatto compiuto da altre persone.
Da tale principio consegue che tutte le persone fisiche possono essere considerate soggetti attivi del reato (l’età, le situazioni di anormalità psico-fisica e le immunità non escludono la sussistenza del reato ma incidono solo ed esclusivamente sull’applicabilità o meno della sanzione penale) e quindi assoggettabili alla sanzione penale mentre restano escluse da responsabile penale le persone giuridiche.
Il secondo e il terzo comma dell’art. 27 prevedono rispettivamente che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” e che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso dell’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Affinché un comportamento possa essere ritenuto illecito e integrare fattispecie di reato occorre che sia contrario alle norme dell’Ordinamento Giuridico. Ma non basta. Per aversi reato occorre il verificarsi delle seguenti circostanze: comportamento volontario del soggetto attivo (autore del reato), sussistenza dell’elemento psicologico (dolo o colpa), nesso di causalità (lega il comportamento attivo del soggetto che agisce al verificarsi dell’evento lesivo) e insussistenza di determinate condizioni che potrebbero determinare la modifica del comportamento da illecito a lecito (le cd. cause scriminanti in presenza delle quali viene meno il contrasto tra un fatto conforme ad una fattispecie incriminatrice e l’intero ordinamento giuridico).
A seconda del comportamento del soggetto agente, si possono distinguere i reati commissivi (l’evento si verifica per un comportamento attivo e volontario del soggetto agente che provoca una lesione a un bene tutelato giuridicamente) e i reati omissivi (il danno si concretizza a seguito di una condotta omissiva del soggetto agente). Per quest’ultima ipotesi, va detto che l’Ordinamento, tra le sue regole generali, impone a chi si trova in determinate situazioni, di agire in un determinato modo. Ai sensi di quanto dispone il secondo comma dell’art. 40 c.p. “non impedire un evento, che si aveva l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
Il soggetto attivo del reato quindi commette reato per omissione quando si trova in una di quelle situazioni (stabilite dall’Ordinamento) e, con il suo comportamento, contravviene a tali disposizioni e, dalla sua condotta, subisce una lesione un bene giuridicamente tutelato. La sua omissione integra quindi reato e determina l’applicazione di una sanzione penale.
I reati di omissione a loro volta si distinguono in propri (o di pura condotta e consistono nel mancato compimento dell’azione comandata, per la cui sussistenza non occorre il verificarsi di alcun evento materiale) e impropri (o commissivo mediante omissione e consistono nel mancato impedimento di un evento materiale che si aveva l’obbligo di impedire.
I reati possono poi essere distinti in comuni o propri. I primi possono essere commessi indifferentemente da qualunque soggetto mentre i secondi sono riferiti a specifiche persone che rivestono una determinata qualifica (es. pubblico ufficiale nei reati contro la PA). In quest’ultimo tipo di reati vi è dunque una stretta connessione tra il fatto compiuto e la qualità rivestita dal soggetto che lo pone in essere.
A seconda che il bene tutelato giuridicamente sia leso o semplicemente offeso, l’offesa del soggetto attivo può assumere due forme: lesione o messa in pericolo. Sulla base di tale distinzione è poi possibile distingue ulteriormente due tipi di reati: di danno (è necessario che il bene sia stato distrutto e/o danneggiato) e di pericolo (per la sussistenza del reato basta solo che il bene sia stato solo minacciato).
Infine, a seconda della pena prevista dall’Ordinamento, i reati si distinguono in delitti (reati puniti con le pene dell’ergastolo, della reclusione e della multa) e contravvenzioni (reati puniti con le pene dell’arresto o dell’ammenda).

 

CONSEGUENZE CIVILI DEL REATO

Dal reato possono derivare conseguenze non solo penali ma anche civili, disciplinari, amministrative ecc.
Generalmente, infatti, la maggior parte dei reati (delitti) determina anche delle conseguenze sul piano civilistico e, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2043 c.c. “Risarcimento per fatto illecito: Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
Le conseguenze di natura civilistica sono previste nel Libro I°, Titolo VII del codice penale e sono: a) Restituzioni (art. 185 c.p.): “Ogni reato obbliga alle restituzioni, a norma delle leggi civili”.
La norma prevede, quando questa sia possibile, la reintegrazione dello stato di fatto preesistente alla commissione del reato. Può avere ad oggetto sia cose mobili sia cose immobili di cui si sia venuti in possesso. Secondo il disposto dell’art. 187, comma 1° c.p., l’obbligo alle restituzioni è indivisibile.
b) Risarcimento del danno (art. 185 c.p.): il secondo comma dell’articolo 185 c.p. stabilisce che “Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”. Per danno patrimoniale si intende quindi l’offesa di un interesse patrimoniale nei suoi due aspetti del danno emergente e del lucro cessante mentre per danno non patrimoniale si intende il patimento morale che deriva dalla commissione del fatto illecito.
Il risarcimento del danno morale non ha funzione di reintegra ma di soddisfazione per il male sofferto.
Obbligato al risarcimento del danno è il colpevole e, in via solidale, anche il responsabile civile. La sanzione consiste nel versamento di una somma di denaro equivalente al pregiudizio arrecato con il reato. Si ricorre al risarcimento quando la restituzione non è possibile o quando non sia sufficiente a riparare il danno cagionato.
Il titolare del diritto al risarcimento è il danneggiato mentre in caso di omicidio, beneficiari sono gli eredi.
Una particolare forma di risarcimento del danno di natura non patrimoniale è la pubblicazione della sentenza di condanna. Ai sensi dell’art. 186 c.p. “ogni reato obbliga il colpevole alla pubblicazione, a sue spese, della sentenza di condanna, qualora la pubblicazione costituisca un mezzo per riparare il danno non patrimoniale cagionato dal reato”. Si tratta di un istituto diverso rispetto a quello della pena accessoria della pubblicazione della sentenza di condanna;
c) Rimborso delle spese allo Stato per il mantenimento del condannato (art. 188 c.p.): ai sensi dell’art. 188 c.p., il colpevole è obbligato a rimborsare all’erario dello Stato le spese per il suo mantenimento negli stabilimenti di pena.
Il condannato risponde di tale obbligazione con tutti i suoi beni (mobili e immobili), presenti e futuri. L’ultimo comma dell’art. 186 stabilisce che “l’obbligazione non si estende alla persona civilmente responsabile, e non si trasmette agli eredi del condannato”;
d) Obbligazione civile per le multe e le ammende inflitte a persona dipendente (artt. 196 e 197 c.p.): l’articolo 196 c.p. dispone che “nei reati commessi da chi è soggetto all’altrui autorità, direzione o vigilanza, la persona rivestita dell’autorità, o incaricata della direzione o vigilanza, è obbligata, in caso d’insolvibilità del condannato, al pagamento di una somma pari all’ammontare della multa o dell’ammenda inflitta al colpevole, se si tratta di violazioni di disposizioni che essa era tenuta a far osservare e delle quali non debba rispondere penalmente”.
L’Ordinamento prevede dunque alcune ipotesi di responsabilità civile quale garanzia dell’adempimento delle sanzione della multa e dell’ammenda.
L’obbligazione ha natura sussidiaria e sorge nel caso di violazione di una norma che la persona preposta doveva far osservare e quando questa non ne deve rispondere penalmente.
L’art. 197 c.p. dispone invece che “gli enti forniti di personalità giuridica eccettuati lo Stato, le regioni, le province ed i comuni, qualora sia pronunciata condanna per reato contro chi ne abbia la rappresentanza o l’amministrazione, o che sia con essi in rapporto di dipendenza, e si tratti di reato che costituisca violazione degli obblighi inerenti alla qualità rivestita dal colpevole, ovvero sia commesso nell’interesse della persona giuridica, sono obbligati al pagamento, in caso di insolvibilità del condannato, di una somma pari all’ammontare della multa o dell’ammenda inflitta”.
Anche questa obbligazione ha carattere sussidiario e trova applicazione solo in caso di insolvibilità del condannato;
e) Effetti dell’estinzione del reato o della pena sulle obbligazioni civili (art. 198 c.p.): la norma stabilisce che “l’estinzione del reato o della pena non importa la estinzione delle obbligazioni civili derivanti dal reato, salvo che si tratti delle obbligazioni indicate nei due articoli precedenti”.
Con questa norma, l’Ordinamento, ha chiarito che l’estinzione del reato o della pena fa venir meno l’illecito penale ma non può escludere da esso quei caratteri di illiceità diversa da quella penale, che esso rivesta.
f) Garanzie per le obbligazioni civili (artt. 189 – 195 c.p.): le due disposizioni del codice penale contengono due strumenti tesi a garantire l’adempimento delle obbligazioni civili da parte dell’imputato e sono: il sequestro conservativo (art. 189 c.p.), la cauzione e l’ azione revocatoria penale (artt. 192-194 c.p.).
Il sequestro conservativo penale dei beni mobili e immobili dell’imputato o delle somme o cose a lui dovute nei limiti in cui la legge ne consente il pignoramento può essere chiesto dal PM (in ogni stato e grado del processo) quando vi è fondato motivo di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento della pena pecuniaria, delle spese per il procedimento e di ogni altra somma dovuta all’Erario dello Stato.
Sono soggetti ad azione revocatoria gli atti fraudolenti compiuti dal condannato sia anteriormente sia posteriormente al reato, sia a titolo gratuito sia a titolo oneroso.

LO STUDIO E’ SPECIALIZZATO NELLA DIFESA DELLE VIOLENZE DI GENERE

Anche l’uomo è vittima della violenza della donna.

Come il femminicidio esiste anche il maschicidio: un fenomeno orrendo su cui spesso si chiudono gli occhi. Per vergogna o per stereotipi. 

Quando si parla di «violenza di genere» si pensa sempre a quella dell’uomo nei confronti della donna: un reato sicuramente ignobile, spesso coperto dal pregiudizio, dall’ignoranza e dalla discriminazione, che merita la giusta punizione. Senza nulla togliere alla gravità di tali comportamenti, troppo poco però si dice del fenomeno opposto, quello cioè della violenza delle donne nei confronti dell’uomo. Violenza che, stando agli atti giudiziari delle Procure e dei tribunali civili di mezza Italia, è tutt’altro che rara. Anzi, è subdola e lesiva, al pari di una violenza fisica. Tant’è che, in alcuni casi (circa 200 all’anno), porta al suicidio. Insomma, come esiste il femminicidio, c’è anche il maschicidio. Eppure di questo non si parla quasi mai a causa della vergogna e degli stereotipi che attribuiscono all’uomo l’immagine della parte forte e aggressiva. Un uomo che subisce una violenza è un debole o ha commesso un grave torto. Così, per evitare etichettature, si preferisce subire in silenzio piuttosto che alzare la testa.

5000 uomini ogni anno subiscono violenze silenziosamente dalle donne

In questo calderone di violenze ai danni del genere maschile rientrano le false accuse di stalking e di violenza sessuale, la pressione esercitata sui figli per allontanarli dal padre separato, la richiesta di mantenimento come arma di vendetta verso l’ex coniuge. E poi una serie di minacce e reazioni fisiche come il lancio di oggetti, percosse con calci e pugni, morsi, graffi. Secondo una indagine del 2012 condotta dall’Università di Siena (citata da Il Giornale), sono circa 5milioni gli uomini che, ogni anno, subiscono violenze dalle donne: violenze sia psicologiche che fisiche. In queste situazioni l’uomo ha spesso paura di reagire perché sa che, se dovesse rispondere allo schiaffo di una donna, sarebbe condannato per violenze e nessun giudice crederebbe alla sua versione.

In Italia ogni anno 200 padri ci sono 200 padri che si suicidano perché le ex mogli non vogliono che vedano più i figli

Non sono poche le ex mogli che, dopo il divorzio, usano i bambini come strumento della propria vendetta, iniziando su di loro un’opera di denigrazione della figura paterna. I minori arrivano così a negare di avere un padre e a non volerlo più vedere pur in assenza di alcuna colpa nei loro confronti. Si arriva così spesso al  «suicidio silenzioso dei papà» che non riescono più a vedere i propri amati figli.

Facciamo un esempio preso in prestito da alcuni (ricorrenti) casi giudiziari. Prendiamo una coppia con un figlio dove la moglie è disoccupata e il marito guadagna 1500 euro al mese. L’uomo è proprietario di una casa. Un giorno lei gli dice che non lo ama più e lo obbliga ad andare via di casa. Se i due andassero dal giudice, il tribunale non solo costringerà l’uomo a fare le valige, ma lo obbligherà a pagare circa 300 euro di mantenimento all’ex moglie e altri 300-400 euro per il figlio. A lui resteranno circa 800 euro con cui dovrà pagare anche l’affitto per una nuova casa. Ma questo è il minimo. Non appena lui salterà un mese, lei lo denuncerà ai carabinieri; probabilmente dirà al figlio che il padre non vuole mantenerlo e ha piacere a vederlo morire di fame. Il figlio odierà il padre e non vorrà mai più avere contatti con lui.

Una situazione del genere porta, ogni anno, in tutta Europa, ben duemila papà a suicidarsi. Il 10% di loro sono italiani. La cosiddetta «alienazione parentale» – è così che è stato battezzato il fenomeno – è in forte crescita e sono numerose le sentenze che lo attestano. I più “fortunati” vengono portati sul lastrico da assegni di mantenimento che non consentono di sopravvivere; in alcuni casi, gli ex mariti sono costretti a vivere nelle auto o a chiedere l’elemosina ai centri di accoglienza.

Ad oggi l’unico modo per i giudici di tutelare i padri è quello di escludere la madre dall’affidamento del figlio, ma questo succede solo nei casi più gravi perché ancora esiste il pregiudizio secondo cui la donna è sempre migliore dell’uomo nella crescita del figlio. Eppure i giudici europei hanno più volte bacchettato l’Italia perché non garantisce il rispetto dei diritti di visita dei minori ai padri separati. Il problema principale in Italia è la mancanza di norme che tutelino i diritti di visita, di educazione e di un normale rapporto dei genitori separati con i figli minori. L’unico rimedio concreto è quello di una denuncia per inottemperanza di ordine del giudice, ma nella realtà queste denunce quasi mai portano ad una soluzione concreta.

In Italia ci sono circa un milione di uomini che subiscono violenza psicologica da parte delle proprie ex-compagne o mogli, le quali strumentalizzano i loro figli per motivi economici. Ci troviamo difronte ad una vera e propria emergenza sociale a cui la politica dovrà trovare presto una soluzione concreta. Nel nostro Paese la violenza ha un solo colore, il “rosa”. L’uomo che subisce violenza ha vergogna a denunciare e anche quando lo fa, rimane inascoltato. Anche i media purtroppo “preferiscono” raccontare dello stereotipo della “Vittima-Donna”. Auspico che il Governo e il Ministero delle Pari Opportunità dedichino la giusta attenzione anche agli uomini vittime di violenza di genere ricordando che la violenza non ha sesso.